QUALITA' NELLE EDIZIONI LIMITATE E NON
di Alberto Vigevani

Parlare del libro, e del «libro di qualità» – l'espressione mi ricorda i Mémoires d'un homme de qualité dell'abate Prevost, in cui vide la luce la storia di Manon Lescaut – mi pare un omaggio dovuto alla città in cui si svolge questo simposio. Città che fornì a tre essenziali aspetti del libro tre grandi e diversi interpreti: l'umanista Guarino (nato nel 137o circa), che insegnò, con l'amore per le humanae litterae, lo studio dei classici; un pittore come Liberale (nato nel 1445), miniatore tra i maggiori e seguace del classicismo di Mantegna; e, sempre nell'aura di Mantegna, di cui fu amico, Felice Feliciano (nato nel 1433: ricordo queste date per la comprensione del momento storico che, a breve distanza uno dall'altro, tutti e tre vissero), emerito scriptor, decoratore di codici e antiquario. Sulle orme di Ciriaco d'Ancona, raccolse e copiò numerosissime iscrizioni antiche – come quelle presenti nello splendido codice Marcanova. Ma, per ciò che più da vicino ci riguarda, «felicissimamente» –se è permesso giocare con il suo nome, come fece lui nel proprio epitaffio : «Povero di mia scelta, felice di fatto e di nome / Nome cercai, l'avaro cerchi ricchezze» –, prima di Moille, di Luca Paciolo, di Leon Battista Alberti, si occupò della costruzione geometrica delle lette­re dell'alfabeto, secondo gli aurei modelli dell'antichità romana, per diventare poi stampa­tore di un Petrarca a Poiano, vicino a Verona.

E ancora qui, a Verona, dopo la parentesi di Montagnola presso Lugano, un altro stam­patore umanista, Giovanni Mardersteig, rinnovò in profondità la tipografia italiana, se­guendo nella scelta dei caratteri e nella impostazione della pagina i grandi esempi del Rinascimento, a cui arrivò a ritroso, in una costante ricerca, partendo dall'ultimo nostro grande nell'arte della stampa, Giovan Battista Bodoni. Disegnò caratteri armoniosi e leggiadri: lo Zeno, il Griffo, il Dante. E a lui toccò di scoprire quel suo grande antenato spi­rituale, quasi le radici del suo assiduo indagare fossero sepolte proprio qui, a Verona. Dico sepolte perché il nome di Felice Feliciano rimase, prima di lui, pressoché sconosciuto : non è presente nella maggior parte dei repertori o delle enciclopedie: nemmeno nella Treccani. Lo è, dirò ancora «felicemente», in questo Simposio, e unito a chi lo studiò con passione tanto tenace che si potrebbe definire amorosa.

Il tema che mi è stato affidato, e avrei volentieri ricusato per la difficoltà di trattarlo senza adeguato tempo a disposizione, s'intitola «Qualità nelle edizioni limitate», a cui ho voluto si aggiungesse «e non ». Questo per eliminare quanto di esclusivo e di snobistico può risultare, a una prima lettura, nell'aggettivo «limitate », anche se, in anni di così rapida trasformazione tecnologica e sociale, è giocoforza, per diversi fattori – tra cui la scarsità, e i conseguenti elevatissimi costi, delle materie prime più elette, dallo straccio per la carta, alle pelli per le legature, agli stessi inchiostri, che si debbono miscelare e sperimentare per ottenere il giusto colore, oltre ai costi delle tecniche illustrative «originali» (acquaforti o li­tografie) che possono concedere esigue tirature – e per i libri di massima «qualità», limitare il numero delle copie, offrendole a un mercato ridotto di collezionisti facoltosi o così ap­passionati «da togliersi il pane di bocca» per aggiungere nuovi libri preziosi nei loro scaffali.

All'origine della stampa, quando la nostra civiltà di massa che, tra i suoi infiniti ed esecrandi difetti, ha almeno il merito di essere, se non una civiltà di colti, una civiltà di alfabetizzati (sebbene soggiacenti a media sempre più visivi), era ancora lontana dal fare la sua apparizione, nemmeno si poteva immaginare un libro che non possedesse una certa « qualità». I primi stampatori gareggiavano tra loro per migliorare esteticamente il pro­prio prodotto. In partenza, dunque, il libro era, per ragioni anche tecniche, «limitato» nella tiratura, perché limitato era anche il pubblico al quale si rivolgeva, e possedeva un alto grado di qualità, perché doveva mettersi in concorrenza con i codici manoscritti che i grandi bibliofili, come Federico da Montefeltro, continuavano giustamente a preferire, per la venustà, ai libri a stampa. Mentre, ripeto, ai nostri giorni il libro, per motivi di costi e di mercato, di diffusa cultura (anche se spesso superficiale), per motivi insomma che altri definirebbero socio-economici, non può avere, e nemmeno proporsi, alcun limite alla pro­pria diffusione: volerla limitare, sarebbe come augurarsi la fine di quella che, seppure ot­timisticamente, chiamiamo la «nostra civiltà».

Da quest'ultima considerazione ha origine, dunque, la mia aggiunta – «e non» – al titolo del tema proposto. Infatti si può parlare di libri di qualità, e addirittura di libri esem­plari, anche per libri la cui tiratura vorrebbe essere, almeno nelle legittime aspirazioni degli editori, tutt'altro che limitata. Libri, si è detto, addirittura esemplari, dal testo alla veste nel suo insieme, come, per portare alcuni esempi, la lunga serie descritta nel catalogo storico della Insel Verlag, i volumi delle stamperie universitarie di Oxford e di Cambridge, della collana della Ricciardi (per tornare a Verona, dove è stampata in Valdonega), o delle edizioni Adelphi e, soprattutto, della maggior parte di quelle di Einaudi, la cui sempre coerente progettazione è per lo più dovuta – dalla scelta dei caratteri alla costruzione della pagina, alla impostazione e alla scelta dell'illustrazione nella copertina – a Bruno Munari.

Parlare di «qualità» nel libro è compito non facile, perché per esaurirlo sarebbero da tracciare i principi di un'estetica sistematica, impresa che supera la mia capacità, anche perché siamo, nella nostra quotidiana fatica, alle prese con una realtà fatta di materiali eterogenei, che ben raramente, e anzi mai, possiamo creare noi stessi e che dobbiamo, con mille quotidiani compromessi, organizzare in un'empirica coerenza. Dire come l'arte del libro, anche prima dell'invenzione di Gutenberg, fu tenuta in altissima considera­zione, alla pari, o quasi, delle arti maggiori; citare, tra quelli che la esaltarono, Dante o Pe­trarca, mi pare inutile. Senza dilungarmi, ripeterò invece la conclusione del primo «Credo» di Giovanni Mardersteig, scritto in anni lontani: «Il libro nella sua specie più nobile», è il mio tema, con altre parole «dovrebbe essere sempre un'opera d'arte». E dopo aver detto, nella propria biografia, che «l'alfabeto è lo specchio dello spirito umano », Mardersteig chiude con questa massima, o moralità:

Per prima cosa servi l'autore,
cerca la soluzione migliore
per rendere comprensibile il testo.
In secondo luogo servi il lettore,
rendigli la lettura piacevole e facile.
In terzo luogo dai a tutto una veste attraente senza essere troppo eccentrico.

Parrebbe facile, addirittura ovvio : non è né l'una né l'altra cosa. E nello svolgere, il più brevemente possibile, il nucleo maggiormente concreto del tema affidatomi, seguirò que­sta massima nelle sue diverse articolazioni.
Se il libro deve riuscire di «qualità», e cioè un'opera d'arte, è necessario, prima di par­larne in tale luce, dire che non può esservi libro di «qualità» (se non in casi del tutto ecce­zionali), senza un «testo di qualità», e se di eccezione si tratterà, quel libro eccezionale dovrà essere di straordinaria bellezza, seppure sotto sotto sempre equivoca, come un bellis­simo principesco abito indossato da donna laida e volgare. Nel libro, infatti, il contenuto è separato dalla forma. Tutti hanno goduto la prosa di Boccaccio o i versi di Leopardi pur nelle più sciatte edizioni scolastiche. E forse da quel contrasto tra sostanza e veste, tra con­tenuto e forma, è nata la nostra voglia di fare libri in cui quel contrasto non possa essere avvertito. Quindi, per un libro che a buon diritto sia chiamato di qualità, è necessario par­tire da un testo di qualità in ogni senso : qualità propria e dignità filologica, pertinenza delle note (se vi sono), limpidezza è corrispondenza della traduzione (se è il caso).

Scelto il testo, l'editore deve creare il progetto del libro in tutte le diverse connessioni, in armonia con il testo o, perlomeno, perché non abbiano a contrastarlo nella sua comuni­cazione. Non è possibile immaginare un libro su Gropius e il Bauhaus, o un testo futurista, composti in carattere Dante o Fournier ; si dovrà sempre cercare un carattere consonante, come, ad esempio, il bellissimo Optima dovuto a Hermann Zapf.
Insomma, il libro nei suoi diversi aspetti dovrà essere in armonia con il contenuto, e per raggiungere quest'armonia è necessario studiare una puntuale coerenza tra il formato, lo specchio della pagina, il carattere e il suo corpo, il colore dell'inchiostro, la carta su cui stamparlo, la legatura con cui vestirlo. È qui che la funzione dell'editore, così molteplice e così immersa nella realtà economica, politica, sociale e soprattutto culturale del suo tempo, diventa creazione, e creazione, salvo i pericoli di cui dirò, duratura. Un libro può, e deve essere, segno, documento di un'epoca.

Per portare un esempio di questa necessaria coerenza e unità stilistica, non dovremo fare molta strada: l'abbiamo qui, a portata di mano, Verona docet un'altra volta. Sono gli Amores di Ovidio, capolavoro dell'Officina Bodoni, composti nel carattere derivato dalla scrittura cancelleresca del Vicentino, dove la delizia del testo, l'armonia della pagina, il movimentato ductus di ogni lettera, si accordano come i diversi tempi di una sinfonia.
Dopo aver scelto il testo e il formato, si dovrà definire lo specchio di stampa, da cui, in relazione al formato, dipenderanno i margini, questo candido respiro della pagina, che la tenacia iconoclasta, la pretesa originalità di troppi grafici e l'acribia degli amministratori-contabili, spesso di provenienza non libraria, trascureranno non risparmiando sulle co­siddette spese di rappresentanza, ma tagliando impietosamente su ogni spesa che accresca la qualità del libro, senza pensare che è nel libro, nel prodotto, la più vera «rappresen­tanza» di un editore che si rispetti.

Lo specchio di stampa, è ovvio (ma tutto ciò che dico dovrebbe essere ovvio, e sfortuna­tamente non lo è), si pone in stretta relazione con il carattere, oltreché con il formato e il corpo prescelti. E qui s'impone parlare del problema, fin troppo attuale, della leggibilità del testo, uno dei precetti di Mardersteig, e questo di fronte a una umanità di lettori e non lettori che ha gli occhi affaticati da una stressante, continua, indomabile invasione di immagini, di segni, d'informazioni visive. Il punto di partenza, oltre alla coerenza con il testo, che dipende da una visione personale e creativa dell'editore, dovrà essere sempre la fruibilità del carattere da parte dell'occhio, di cui non si può ignorare la struttura anato­mica e funzionale. Ciò che appare il fine delle diverse arti, e cioè la bellezza, non è suffi­ciente a quella, sia pure minore, del libro, perché il libro deve essere letto e il più sovente, è stato osservato, da persone che, per la lunga consuetudine alla lettura, o perlomeno all'uso continuo della vista, sono costrette a portare occhiali. L'occhio, se non è, dirò dolcemente, accompagnato dal segno del carattere, e favorito dalla costruzione della pagina (il rap­porto tra specchio di stampa e margini), si affatica con facilità, al punto che può addirittura essere respinto dal confondersi e come formicolare delle lettere.

La lettura, infatti, si effettua attraverso il contrasto, sul supporto della pagina, dei tratti neri e degli spazi bianchi: dovrà esserci quindi un rapporto tra la lunghezza della riga (e dunque la giustezza dello specchio di stampa) e il corpo del carattere. Una riga troppo lun­ga in un corpo piccolo si legge con difficoltà. E lo spazio bianco tra linea e linea (l'interlinea) e lettera e lettera deve concedere, insieme con i margini armoniosamente distribuiti tutt'in­torno alla pagina, un giusto, necessario riposo alla vista del lettore. Le eccentricità dei gra­fici che vengono chiamati ad intervenire tra editori digiuni di tipografia e proti digiuni di estetica (e, nei due campi, purtroppo sono la maggior parte !) tende a ridurre, come si è detto, o a modificare, l'aureo rapporto che dai prototipografi era stato ereditato dagli scriptoria umanistici. Se il loro gusto, intendo dei grafici, la loro audacia, possono trovar posto, e talora felice o anche felicissimo, nella pubblicità (nella quale l'occhio, per recepire appieno il messaggio, deve essere «violentato »), o nei cataloghi – dove la lettura, come nei libri di abbondanti illustrazioni e scarso testo, è distratta o saltuaria –, e in genere nelle ef­femeridi, nessun posto, salvo rarissime e fortunate eccezioni, possono pretendere nei libri veri e propri: oltre che un'operazione antiestetica, potrebbe essere, nella più parte dei casi, un'offesa alla natura dell'occhio, alla sua tranquilla fruizione. Anche se l'interpretazione semantica può lentamente modificarsi, nel corso della storia, la struttura dell'occhio rimane la stessa, dall'epoca di Adamo, seppure lo stesso Bodoni già ammetteva, o meglio prevede­va, in parte, quel che sarebbe accaduto: «Imperciocché» scriveva «come in ogni altra cosa, così pur anco nella scrittura la moda regna e dà leggi, talor con ragione, e talor senza». Ma non si può dimenticare che, se «l'alfabeto è lo specchio dello spirito umano» e, per i cabba­listi, studiosi del verbo biblico, cela in ogni sua lettera la parola di Dio, l'occhio è la finestra che permette allo spirito di conoscere il mondo, e al mondo di penetrare nello spirito.

In quanto al carattere, o ai caratteri, possiamo riprendere in mano il Manuale bodo­niano del 1818, che così recita: «[nei caratteri] il buon gusto si attiene alla semplicità non rozza, quale si mostrerebbe delineando con tratti per tutto egualmente grossi le lettere, ma ben avvisata e gentile, quale scorgesi nel bel contrasto per dir così di chiari e scuri, che vien naturale a ogni scritto di ben tagliata penna e ben tenuta in mano ».
Dopo decenni di oscurantismo, e per l'Italia di triste autarchia, si è ritornati alla «gen­tile semplicità» che fu privilegio degli antichi, riscoperti e posti in giusta luce dagli umani­sti, tra cui Felice Feliciano. Caratteri egregiamente ridisegnati e adattati alle necessità della composizione meccanica sono oggi disponibili (e ormai persino per la composizione foto­meccanica), per l'illuminata opera di Stanley Morison, nel ricchissimo catalogo della Monotype Corporation, che comprende anche alcuni caratteri ideati da Giovanni Marder‑

steig. La scelta è larghissima, risponde a ogni più sofisticata esigenza. Si va, per quelli di migliore leggibilità ed eleganza – per la più parte derivati dalla grande famiglia degli elze­viri (con lettere più larghe e arrotondate), – dal Baskerville al Garamond e all'Imprint, per arrivare al Blado, al Dante. Tra i caratteri più moderni, sarà il caso di accennare ancora all'Optima, disegnato da Zapf per la Linotype.
Per ciò che riguarda i titoli, c'è libertà assoluta, perché non è necessaria una corrente facilità di lettura, solo è consigliabile una certa robustezza, e che siano posti al centro, sia della copertina, sia del frontespizio, affinché l'occhio li colga con immediatezza, senza su­bire l'impressione che la riga tenda ad uscire dallo specchio ideale, e a sbilanciarsi verso i lati. Per essi si vorrebbero raccomandare caratteri d'inequivocabile purezza e peso, come il Bodoni, il Caslon, il Bembo ecc., e, per i corsivi, quelli con grazie o arricchiti da «swash capitals».

È il momento di accennare alla carta, che si vorrebbe, anch'essa, di «qualità», ma qui cominciano note dolenti: la Carta a mano, fatto di puro straccio, raggiunge prezzi assai alti, come tutto ciò che è manuale in una civiltà meccanica: poche le cartiere che ne manten­gono la produzione; le carte fabbricate su macchine «in tondo », di cellulosa a fibra lunga con l'aggiunta di percentuali minori o maggiori di straccio, costano care anch'esse, e le cartiere che le producono si fanno ogni giorno più rare; inoltre esigono ordini per quantità che superano di gran lunga le necessità usuali per i libri a tiratura limitata. D'altra parte adoperare, anche per edizioni comuni, carte prodotte con pasta di legno, significa che i li­bri pubblicati in questo secolo, dopo poche decine d'anni dalla loro comparsa, dapprincipio ingialliranno, per finire quindi per frantumarsi o addirittura disfarsi. Vorrei proporre che, di ogni libro che valga la pena di tramandare ai posteri, salvandolo dalla distruzione (e saranno la minor parte e, all'atto di sceglierli, si desteranno polemiche infinite), per farli insomma durare secoli come quelli giunti fino a noi in ottima salute, si stampino cinquanta o cento copie su carta sicuramente duratura, da mettere in vendita a prezzo maggiore a biblioteche pubbliche e a bibliofili avveduti. In Francia tale accorgimento è in uso da quasi un secolo sebbene si adoperino spesso carte che non rispondono ai requisiti richiesti.

Non parlerò dell'importanza del colore dell'inchiostro, dello splendore della stampa al torchio, per questo consiglierò una visita all'atelier, sempre a Verona, della Officina Bodoni, perché ho detto già troppo, senza peraltro esaurire l'argomento, che andrà ancora definito nelle sue ultime propaggini, se così si può dire, come l'illustrazione e la legatura. In quanto alla prima, che, a parte ogni considerazione economica o di mercato, è causa spesso obbligata della limitazione della tiratura, è noto che il libro illustrato di alta «qua­lità» esige in genere di essere illustrato con originali: acquaforti, legni, litografie, che con­cedono tirature oscillanti tra le centocinquanta e le quattrocento copie. Va detto che l'illustrazione viene purtroppo affidata, e troppo spesso per ragioni di mercato (per gli editori) e d'investimento (per gli acquirenti), ad artisti di fama che generalmente non hanno dimestichezza con il libro e perciò, salvo eccezioni, si astraggono del tutto dalla sua realtà concreta, perché non la praticano, non la conoscono. L'illustrazione, invece, deve sposare il libro, non solo nel suo contenuto, ma nella sua concretezza, nella sua pagina, nel carattere scelto. Gli esempi – a parte gli antichi, del Quattrocento e del Cinquecento, prodotti da stampatori ben consapevoli di questo – possono trovarsi nei libri veneziani del Settecento, nei francesi dell'epoca romantica, e, più tardi, con la rifioritura delle arti del libro per me rito dell'Art Nouveau. Si citeranno, scelti tra tanti, gli esempi di un William Morris e, per l'illustrazione, di un Aubrey Beardsley, oltre alle edizioni di Ambroise Vollard, tra cui soprattutto ammirevole La belle enfant di Dufy. Lo stesso Mardersteig non prese fino in fondo in considerazione l'auspicato sposalizio, se non in due casi superbamente riusciti: L'Oleandro, di D'Annunzio, illustrato da Bamer, e II Milione di Marco Polo, illustrato da Campigli, nel quale c'è uno strettissimo, mirabile rapporto tra testo, carattere, pagina, illustrazione.

Il capolavoro, in questa direzione di perfetta armonia di elementi che nascono lontani tra loro, è, in questo secolo, l'edizione dei Calligrammes di Apollinaire illustrata da De Chirico : qui l'illustrazione entra con felice prepotenza nell'interno della pagina, la circuisce, la penetra, come negli splendidi codici miniati che i secoli passati ci hanno lasciato in spesso immeritata eredità.
Si dovrà, in ultimo, parlare della legatura: basterà attenersi alla maggior purezza e semplicità, anche senza arrivare all'esempio di quelle che si dicono gianseniste, e nacquero sulla scia della purezza dell'ispirazione religiosa di Port Royal. Non vestire mai da vescovo un frate mendicante, cioè non vestire sontuosamente libri poveri o brutti, non tradire la storia, vestendo magari un Tallone con una legatura monastica, né adoperare fregi rina­scimentali per un libro futurista o cubista. Questi semplici accorgimenti vengono da un'educazione ancora rara in Italia, mentre la Francia ha avuto una straordinaria fioritura di legatori-artisti, che nel disegnarne l'ornamento, considerano la legatura come supporto della loro creazione (e l'esecuzione è sempre affidata ad artigiani di grande livello, che si dividono le varie fasi). Il maggiore di questi artisti è stato, senza dubbio, Bonnet, che ha creato, con Praxinos, anche legature editoriali per libri comuni, i «cartonnages » di Galli­mard.
Senza possedere autorità nei vari campi di questo sapere del libro, ma soltanto una grande esperienza d'amore, tengo a precisare che non ho voluto e potuto esaurire una materia che avrebbe diritto a un intero trattato. Ho trascurato, per mancanza di spazio e di tempo, molti esempi perspicui; voglio solo ripetere quel che ho detto in principio: un libro di «qualità» è un libro, sia esso di lusso, a tiratura limitata, sia esso economico, a grande tiratura, che deve raggiungere una squisita, perfetta armonia tra i diversi elementi che lo compongono.